La sala di attesa nelle strutture sanitarie come luogo di umanizzazione delle cure
(AUS, L’Ancora nell’Unità di Salute, n. 6, 2020)
di Vito Ferri
“Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa.”
Jules Renard
A tutti noi è accaduto di trascorrere minuti o ore in un luogo solitamente chiamato “sala di attesa” o “sala di aspetto”. In riferimento all’ambito sanitario è meglio parlare di “sala di attesa”, vediamo perché. “Aspettare” ed “attendere” non sono sinonimi sovrapponibili. “Attendere” implica pathos, esprime un coinvolgimento emotivo che proietta la persona in un futuro nel quale si “aspetta” di trovare le risposte a propri bisogni. “Aspettare” invece è meno coinvolgente, comporta meno intensità emotiva, più passività rispetto ad attendere. “Aspettare” è centrato sulla mera comparsa, nel campo percettivo e vitale, della cosa, evento o persona che si aspetta. “Attendere” invece pone l’accento sulla personalità di chi attende, sulle sue emozioni e bisogni presenti nel tempo che lo separa dal manifestarsi o realizzarsi di ciò che attende. Etimologicamente “aspettare” deriva da “guardare attentamente, essere rivolti a”; ad esempio aspettare che scatti il verde del semaforo. Mentre “attendere” deriva da “tendere verso, rivolgere l’animo a”. Nell’attendere c’è tensione. Sono in primo piano bisogni ed emozioni; ad esempio attendere con eccitazione l’arrivo della persona amata. Certo, capita di attendere e aspettare allo stesso tempo, ma la differenza di significato permane: posso aspettare che mi consegnino le analisi cliniche e attendere con ansia l’esito; una donna gravida “aspetta” un bambino, quando l’enfasi è posta sulla scadenza dei nove mesi e sul nascituro; mentre se l’accento cade sul vissuto è in dolce “attesa”.
Questa distinzione non è solo un esercizio lessicale ed etimologico, è importante comprenderla in profondità per progettare, organizzare e umanizzare “sale di attesa” in reparti di strutture sanitarie, spazi in cui vivere il tempo gravido di emozioni e fantasie, luoghi dell’attesa che siano accoglienti, confortanti e confortevoli, che offrano possibilità di contenere le emozioni, di distrarsi, di rilassarsi ed eventualmente relazionarsi e conversare. Mi è capitato più volte, sia come psicologopsicoterapeuta in ambito oncologico, sia come privato cittadino, di transitare, sostare o lavorare in ospedale in “sale di attesa”, dove il tempo è metaforicamente sapido, salato rispetto a una “sala di aspetto”. La prima cosa che ho fatto, ad esempio, iniziando a lavorare in un reparto di Oncologia medica, è stato frequentare sistematicamente proprio la sala di attesa (che poi di fatto era un “corridoio” di attesa), lì dove la gente attende seduta o in piedi prima di essere chiamata dagli infermieri a sottoporsi alla infusione di farmaci antitumorali o attende il proprio turno per la visita ambulatoriale o il prelievo per le analisi di routine. Esercitando la mia consapevolezza ed empatia ho colto le eccedenze del “sale dell’attesa” di quel luogo: la scomodità dei sedili; la presenza in un angolo di vasi con una pianta di pachira dal fusto strettamente intrecciato come le emozioni degli astanti e “tronchetti della felicità” o forse “…della tristezza” vista la terra secca e le foglie maculate di giallo; le escursioni termiche d’inverno da una estremità all’altra del “corridoio di attesa”; l’illuminazione fredda dei neon; l’infiltrazione di acqua della pioggia dagli infissi di legno delle finestre chiuse d’inverno e di spifferi di aria gelida giusto dietro la nuca di chi siede in prossimità di esse; il passaggio lungo il corridoio-sala di attesa verso il day hospital, sotto gli occhi imbarazzati e attoniti di pazienti e accompagnatori, di letti-barelle da corsia con sopra distese persone, spesso pallide come la carta o esprimenti sofferenza e forse pure infastidite, loro malgrado, per quella passerella del dolore. Ho osservato le pareti e ho notato affissa una locandina che pubblicizzava un congresso, con una grande scritta: “Carcinoma multimetastatico del rene”; era affissa giusto sulla parete di fronte a una panchina di legno che ti modella il sedere a 90 gradi perfetti, sulla quale pazienti e accompagnatori aspettavano il turno della visita ambulatoriale anche per due o tre ore e lo sguardo perso nell’attesa era costretto a posarsi su quelle scritte. E poi, ovviamente, ho fatto il mio lavoro clinico e ho assaggiato il sale, sapore forte, delle emozioni delle persone, ho ascoltato i loro vissuti gravidi di pathos nell’attesa: della prima visita specialistica oncologica; della prima o ennesima somministrazione di chemio o immunoterapia; del turno per il prelievo ematico di routine; dell’arrivo chissà quando e chissà da dove della sacca di sangue o di plasma per la trasfusione e intanto freddo, tremore, tachicardia e spossatezza si impossessavano del corpo; attesa che il proprio caro terminasse la seduta di terapia (dopo anche 5 o 6 ore) per poi fare la fila e ancora attendere il colloquio col medico per le dimissioni. E in quel luogo che “sala l’attesa”, ho potuto incontrare negli sguardi e nelle parole l’attesa delle attese, quella dei primi segni di efficacia della terapia e quindi della sconfitta o almeno cronicizzazione del cancro. Questa super-attesa carica di speranza a volte era rilevabile in filigrana in desideri come l’attesa di fare un viaggio di vacanza, di festeggiare il prossimo Natale o compleanno o l’attesa di eventi come le nozze o la laurea di un figlio o di un nipote.
Nelle anticamere e sale di attesa di reparti ospedalieri come Oncologia medica o al Pronto soccorso o in Terapia intensiva, il tempo può avere un sapore forte, salatissimo e il “sale” delle attese qui si chiama angoscia, ansia, paura, vergogna, rabbia, frustrazione. Il tempo, per le persone malate di tumore e accompagnatori (solitamente caregiver), fuori o dentro la sala di attesa non è il tempo insipido o iposodico vissuto da noi provvisoriamente sani, operatori sanitari in primis, e il sale, si sa, se è ingerito eccessivamente alla lunga può fare molto male, e comunque sempre sollecita nell’organismo il bisogno di idratazione, accende un forte desidero di acqua. L’acqua è la speranza, la pazienza, la sopportazione, la liberazione, la luce in fondo al tunnel, il risveglio dall’incubo, il sollievo, la forza di reagire mobilitata in sé e/o attorno a sé. Quale acqua possiamo procurare o offrire a chi trascorre tempo, tanto tempo, in sala di attesa? Me lo pongo sempre questo interrogativo, e oltre ai miei interventi clinici di ascolto, sostegno, psicoterapia, cerco di prendermi cura anche dell’attesa oltre che nell’attesa. Un’attesa che sento patita, subita, assediata da emozioni spiacevoli, “salata” al limite della sopportazione o di quello che comunque ci si può… “aspettare” in un reparto di Oncologia. A parte la cura del comfort dell’ambiente fisico, degli spazi, ossia della “sala”, che vede impotenti gli stessi operatori sanitari del reparto nell’apportare cambiamenti strutturali rilevanti, c’è poi la cura “della” attesa che può essere operata da uno psicologo, magari coadiuvato da volontari, che, in questa particolare cura, svincolato da protocolli e setting psicoterapeutici, va incontro alle persone in attesa e ai loro bisogni, si siede accanto a loro, le incontra umanamente oltre che professionalmente, allo scopo di attenuare la sapidità del tempo vissuto grazie a un ascolto discreto, empatico, attento delle emozioni e degli stati d’animo. Un ascolto individuale, se necessario e se possibile anche appartandosi per riservatezza, o che coinvolge più persone presenti, magari facilitando l’interazione comunicativa tra gli astanti, innescando un processo molto informale di auto-mutuo aiuto. Aiutare a vincere la passività e ad uscire dall’angolo del ring dove a volte l’attesa co-stringe, questo deve essere uno degli obiettivi, e quindi incoraggiare le persone in attesa a leggere o impegnarsi in qualche attività ricreativa; un’idea può essere quella di distribuire cruciverba ideati appositamente (nella mia esperienza li ho composti appositamente, inserendo definizioni positive, a volte divertenti, incoraggianti, incuriosenti perché riguardanti operatori e quotidianità dello stesso reparto); promuovere l’esibizione (adatta al contesto della sala di attesa ovviamente) di musicisti o artisti di associazioni no profit. Esporre sulle pareti foto gradevoli e rasserenanti (sono foto scattate da me e solitamente le seleziono facendole scegliere nell’attesa dagli stessi pazienti e caregiver tra decine di provini stampati su carta o mostrandole sullo schermo di un tablet). Invitare a scrivere su un foglietto e inserire in un apposito raccoglitore pensieri su un tema periodicamente suggerito come: la speranza, la pazienza, il sollievo, il tempo dell’attesa, ecc.; o anche scrivere consigli e messaggi rivolti alle stesse persone in attesa. Se lo psicologo ritiene che alcuni messaggi possano essere di supporto e di incoraggiamento, può fotocopiarli ingranditi e affiggerli alle pareti del reparto o della sala di attesa, ovviamente informando in anticipo di questa possibilità di condivisione pubblica quando qualcuno lascia un proprio messaggio. In aggiunta si possono affiggere grandi fogli di carta con su scritto a mano con un pennarello e magari decorati con ghirigori a colori pastello, un aforisma d’autore incoraggiante o una massima positiva, motivante, composta dallo stesso psicologo in base ad osservazioni ed esigenze specifiche maturate in reparto e ogni settimana o due sostituire la frase con una nuova. Voglio concludere proprio con una delle frasi raccolte, uno dei tanti “messaggi nella bottiglia” (così avevo chiamato questa iniziativa), scritto da una persona malata di tumore in fase di remissione dei sintomi, probabilmente in attesa di una visita di controllo. Un messaggio che ho fotocopiato e affisso alla parete perché fosse letto e portasse una goccia di acqua fresca a contrastare l’arsura data dal sale dell’attesa: “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso!! Io ho vinto, non mollare mai!! Stella”.